L’arte pop di Keith Hering sbarca a Milano con 110 opere tra cui molte inedite e mai esposte a Palazzo Reale fino al 18 giugno.
I suoi Radiant babies (omini che irradiano) e i Barkings dogs (cani che latrano), immersi in un flusso grafico che ha dato vita a un linguaggio visuale inedito e inconfondibile, colorano gli spazi pubblici di molte città del mondo.
Destinato a diventare uno degli esponenti più rappresentativi e originali della corrente neo pop, Haring nasce in Pennsylvania il 4 maggio 1958. Inizia a lavorare per le strade di New York negli anni ottanta, nel momento di massima espansione del mercato e dell’interesse per l’arte contemporanea. Trova subito il suo mezzo e il suo stile, una sorta di marchio di fabbrica: disegna pupazzi stilizzati sulle metropolitane newyorchesi con un gessetto bianco spesso in fuga dalla polizia.
Penso di essere nato artista; penso di avere la responsabilità di riuscirci. Ho trascorso la mia vita fino a questo punto cercando solo di capire che cosa sia questa responsabilità. Ho imparato studiando le vite di altri artisti e studiando il mondo. Adesso vivo a New York City, che a mio parere è il centro del mondo. Il mio contributo al mondo è la mia abilità nel disegnare. Disegnerò il più possibile, per tutte le persone possibili, il più a lungo possibile. Disegnare è fondamentalmente sempre la stessa cosa dai tempi della preistoria. Unisce l’uomo e il mondo. Vive attraverso la magia.
La mostra affianca le opere di Haring a quelle di autori di epoche diverse a cui l’artista si è ispirato e che ha reinterpretato con il suo stile unico e inconfondibile, in una sintesi narrativa che mette insieme tradizione classica, arte tribale ed etnografica con l’ immaginario gotico o di cartoonism.
Il suo progetto è sempre stato di ricomporre i linguaggi dell’arte in un unico personale ed universale, immaginario simbolico. Riscoprire l’arte come testimonianza di una verità interiore che pone al suo centro l’uomo e la sua condizione sociale e individuale.
Nel corso della mostra scopriamo che Haring non è stato ‘solo’ uno dei più grandi protagonisti della controcultura della street art ma anche un uomo colto, profondo conoscitore dei linguaggi dell’arte e delle opere dei suoi grandi interpreti nel corso dei secoli.
L’inedito punto di vista proposto dal curatore Gianni Mercurio prevede infatti come vi ho già accennato un percorso espositivo dove i lavori dell’artista americano sono accostati alle opere d’arte che lo hanno ispirato. Personalmente mi ha colpito molto l’accostamento tra “la colonna traiana” ed i suoi graffiti come indiscussi esempi antichi e moderni di “story telling”.
Altra opera estremamente interessante è un dipinto degli anni Ottanta – Untitled, del 1986 –che è descritto in maniera significativa soprattutto per sottolineare il rapporto di Haring con la tradizione della pittura “colta”, quella cristiana medievale in particolare, e sul ruolo del pubblico nella definizione del senso di un’opera d’arte. Folgorato dalla visita alla retrospettiva di Alechinsky del 1977 , dalla quale ricavò una maggiore sicurezza nei propri mezzi e obiettivi, così come dalla partecipazione a un seminario tenuto da Christo , che accese in lui la voglia di dar vita a lavori capaci di “agire” sulle persone che li avessero visti, cambiandoli, Haring studiò la vita e il lavoro di molti artisti con i quali sentiva di avere una qualche forma di sintonia – da Matisse a Picasso, da Klee a Pollock – nella consapevolezza precoce di appartenere a una grande famiglia le cui radici affondano inevitabilmente fin nella preistoria
Amici e protagonisti dell’epoca: una giovanissima Veronica Ciccone, grande amica di Haring, Jean-Michel Basquiat e Andy Warhol, i galleristi newyorchesi. Nelle sue opere i temi dell’epoca: la scoperta dei muri della subway dove vennero creati i primi graffiti, l’abuso di droghe e infine l’Aids, terribile malattia che falciò la comunità di gay e artisti nel quale Haring viveva e che alla fine colpì anche lui, portandoselo via a soli 32 anni.
Il mentore, o forse più il cicerone, di Keith Haring una volta arrivato a New York è stato senza dubbio Andy Warhol, che l’artista ha voluto poi celebrare in un’opera che esiste in diverse versioni: Andy Mouse. Più volte dirà di aver fatto quel ritratto per dare il giusto peso culturale a Warhol, rappresentandolo come parte integrante della cultura pop americana.
La mostra presenta come prima immagine uno dei suoi omini (Untitled, 1981) con il ventre forato, dettaglio ispirato dall’assassinio di John Lennon, ma con anche le braccia alzate e le gambe divaricate a formare la grande “X” dell’Uomo Vitruviano di Leonardo e si conclude con Performance, una sala video con filmati delle sue incursione nella metro, mentre inventava immagini davanti a un pubblico chiamato ad assistere alla creazione.
Per Haring dipingere era un atto performativo e il dipinto una volta finito non apparteneva più all’artista ma al pubblico – spiega Mercurio curatore della mostra – infatti, la maggior parte delle sue opere non furono titolate, tranne che per qualcuna come Unfinisched Painting del 1989, tela creata a pochi mesi dalla morte, per gridare con forza che non voleva un’interruzione.
L’ immagine del non finito ma infinito fa da cover alla locandina della mostra e vi invitiamo a visitare questa bellissima mostra personalmente una fantastica scoperta del mondo di Haring.